Dell'amicizia e del compito alto dell'insegnante per l'inclusione (cioè di sostegno)

 

25.11.2021

 

Ho bisogno e voglia di scrivere!

C’è qualcosa che si agita in me. Ho appena finito di guardare il film Bohemian rhapsody e su tutti c’è un pensiero, una sensazione che mi accompagna.

Per tutta la durata del film, ogni volta che compariva Mary, l’ex moglie di Freddie Mercury e poi sua grande amica, il pensiero andava a Grazia, alla sua presenza nella mia vita, al supporto che mi ha dato e dà e alla amicizia, forte, che ci lega. Ci sentiamo poco, anzi pochissimo. Lei con la sua famiglia, i figli, il lavoro; io con la mia vita e il lavoro, il continuo progettare il futuro, la passione che fa battere il cuore, che spinge ad alzarmi la mattina, a lottare per l’inclusione delle persone con disabilità. Nonostante le migliaia di parole che vorrei dire, ma che, purtroppo, non riesco a pronunciare. Ci sentiamo poco. Ma so che lei c’è e questo amore, questa amicizia mi nutre, mi dà forza, mi sostiene. Grazia quindi. Presenza silenziosa nel mio cuore.

Insieme a Grazia, al silenzio che cala per cause di forza maggiore tra noi, ora penso e ritrovo Tommaso. L’alunno che mi è stato donato, incrociandolo nel cammino professionale, parte di quello più ampio della vita. Anche con lui c’è silenzio. E questo silenzio non impedisce la comunicazione. Anzi, la amplifica e la porta a profondità che riesco appena a percepire.

Tommaso.

E Anna.

Due persone molto simili nelle loro disabilità, ma anche molto diverse, come è giusto e ovvio che sia. Uno non sostituisce l’altra, né può farlo. Se lo pensassi, farei un torto ad entrambi. Nonostante questo sono molto simili, perché entrambi mi insegnano a guardare oltre l’apparenza, mi isegnano ad andare oltre e vedere la persona. Anna nella forza che emana dal suo ricordo sempre vivido. Tommaso nella quotidianità del presente scolastico.

Torna sempre questo aspetto nella mia esperienza: la persona oltre l’apparenza.

La persona nonostante la disabilità.

La persona per quello che è e per come appare. Anche con la sua disabilità che, è bene precisare, non dovrebbe essere percepita come fosse una sfortuna da accettare con rassegnazione, bensì come la condizione che rende la persona così come è e non come avrebbe potuto o dovuto essere.

E le barriere imposte dalla disabilità, spesso sono solo barriere apparenti. Mettono in crisi l’abitudine a dare per scontato che la comunicazione e la relazione abbiano un solo codice, quello della “normalità” che usiamo quotidianamente nella stragrande maggioranza delle interazioni sociali. Mettono in crisi le convinzioni, quelle che, nella assuefazione della abitudine a ragionare per schemi immutabili rapportandosi alla realtà come fosse l’unico modo possibile di entrare in relazione con le persone, spingono a catalogare la diversità. Creando inevitabilmente barriere. La conseguenza è che, spesso, nel confronto con una persona con disabilità si tratta non con la persona in quanto tale, ma con la sua condizione, il suo stato per come appare e per come è percepito, finendo per prendere le barriere troppo facilmente come dati oggettivi, ostacoli insormontabili. Eppure quelle barriere percepite dovrebbero costringere ad andare oltre, a cercare nuovi modi di comunicare, a scoprire nuove forme e nuove possibilità.

Andare oltre, ponendosi in quest’ottica non è semplice, lo ammetto, ma per quanto mi riguarda è ciò che permette di imparare, crescere e aiutare a crescere. È così che io imparo, e scopro, grazie a Tommaso e a qualsiasi altra persona con disabilità, che non c’è spazio per la resa, non c’è spazio per la rinuncia a prendere la condizione di apparente incomunicabilità come fosse un dato di fatto. Perché Tommaso – come è stato per Anna e come è per qualsiasi altra persona – ha diritto e bisogno di essere posto in condizione di comunicare, di entrare in relazione, di scoprire ed essere aiutato a scoprire che i limiti, quelli oggettivi e reali, non sono insormontabili. Che ci sono spazi di manovra per crescere e vivere in pienezza la vita nella quotidianità della propria condizione.

Ci vuole pazienza, ci vuole disponibilità, ci vuole tempo e voglia di non arrendersi. Ma ci vuole anche la capacità di fare spazio, di rinunciare ai punti di vista che, spesso inconsapevolmente, riferendosi a una persona fanno dire che con “quello/quella lì non c’è nulla da fare”. Per dirla in maniera brutale: quella resa a tavolino porta a subire e a ridurre l’altro a sopravvivere, non a vivere.

Ci vuole coraggio a rinunciare a molto di sé per lasciare spazio…

Per cercare nuove strade, per cercare e capire quali sono le condizioni migliori affinché l’altro possa esprimere se stesso e vivere al meglio.

Vivere.

Questo ragionamento apre la possibilità di comprendere più profondamente quello che dovrebbe essere il compito di un insegnante di sostegno, o – come sarebbe meglio dire – un insegnante per l’inclusione: essere un ponte, vale a dire il mezzo e il tramite perché avvenga l’incontro tra la persona con disabilità e la comunità scolastica, a partire dalla classe di cui è membro, affinchè si dia la scoperta reciproca ed entrino in comunicazione tra loro. Per diventare ed essere una comunità di persone.

Commenti

  1. Avevo letto a suo tempo questo pezzo. Rileggerlo oggi è una nuova scoperta

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